C’è un muro che ogni investitore italiano conosce bene. Un muro alto, solido, eretto al 26%. È l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie. Che tu abbia guadagnato cento euro o diecimila, che tu sia un trader navigato o un piccolo risparmiatore, quel 26% è lì, implacabile, a prendersi una fetta del tuo successo. È una regola del gioco che accettiamo, spesso con rassegnazione, perché sembra scolpita nella pietra.
Ma se ti dicessi che non è sempre così? Se ti dicessi che esiste un sentiero meno battuto, una porta secondaria nel labirinto fiscale italiano che, per alcuni, conduce a un’aliquota del 23%, del 15% o persino dello 0%? Non sto parlando di scappatoie illegali o di paradisi fiscali esotici. Sto parlando di una possibilità concreta, prevista dalla normativa, che sta emergendo con forza nelle discussioni online più attente e tra gli investitori più curiosi.
È la storia di un’ottimizzazione fiscale profonda, che trasforma un obbligo passivo – pagare le tasse – in una scelta strategica attiva. È il mondo degli ETF in regime dichiarativo, una realtà che ho visto nascere e crescere tra dubbi, esperimenti e, alla fine, conferme sorprendenti. Questo non è un consiglio finanziario, ma il racconto di un percorso che potrebbe cambiare per sempre il modo in cui guardi al tuo portafoglio e alla tua dichiarazione dei redditi.

Quando il 26% non è un destino: la scintilla dell’ottimizzazione fiscale
Immagina per un attimo la situazione di Marco. Libero professionista in regime forfettario, ha un buon fatturato, ma la sua imposta è fissa al 15% e non genera IRPEF. Nel frattempo, ha sostenuto migliaia di euro di spese mediche per la sua famiglia e sta pagando gli interessi sul mutuo della prima casa. Ha un cassetto pieno di detrazioni fiscali, ma nessuna imposta lorda da cui scalarle. Quei crediti, per lui, sono carta straccia. Soldi persi.
Ora pensa a Giulia. Dopo anni di lavoro, ha deciso di prendersi un periodo sabbatico per dedicarsi ai figli e alla sua passione per gli investimenti. Non ha altri redditi se non quelli che derivano dal suo portafoglio. Ogni volta che realizza una plusvalenza, scatta l’imposta del 26%, senza se e senza ma.
Queste non sono storie di fantasia. Sono i profili perfetti per i quali l’idea di una tassazione ordinaria sui guadagni da investimento smette di essere un concetto astratto e diventa una necessità concreta. La logica è disarmante nella sua semplicità: perché pagare il 26% quando la tua aliquota IRPEF personale sarebbe più bassa?
Ed è qui che si accende la scintilla. Per chi non ha altri redditi, l’aliquota di partenza è del 23% (sul primo scaglione). Già un 3% di risparmio. Ma il vero potenziale si scatena quando entrano in gioco le detrazioni. Le spese per i bonus edilizi, i versamenti al fondo pensione, le spese sanitarie: tutto ciò che normalmente abbatterebbe l’IRPEF da lavoro dipendente può essere usato per erodere l’imposta generata dalle plusvalenze degli ETF, portando il carico fiscale effettivo a cifre irrisorie. È una vera e propria rivoluzione copernicana per chi si è sempre sentito “incapiente”, tagliato fuori da ogni beneficio fiscale.

Il kit di attrezzi dell’investitore “dichiarativo”: broker estero e la libertà di scelta
Per percorrere questo sentiero, però, non basta la sola volontà. Servono gli strumenti giusti, un piccolo “kit dell’hacker fiscale” perfettamente legale. Nelle conversazioni tra appassionati, tre elementi sono emersi come assolutamente indispensabili.
Il primo, e più importante, è un broker estero. Piattaforme come DEGIRO sono diventate il fulcro di queste strategie. Il motivo è tecnico ma cruciale: un intermediario italiano agisce come sostituto d’imposta. Significa che trattiene e versa le tasse per te, applicando il 26% alla fonte. Fine della storia. Un broker non residente, invece, non lo fa. Ti accredita i proventi lordi e ti lascia la piena responsabilità – e la libertà – di gestirli in sede di dichiarazione dei redditi.
Il secondo strumento è una conseguenza del primo: il regime dichiarativo. È il prezzo da pagare per questa libertà. Significa monitorare le operazioni, compilare i quadri corretti del Modello Redditi (RW per il monitoraggio, RM o RL per i redditi) e assumersi la responsabilità di calcolare e versare le imposte. Non è per chi cerca la via più comoda, ma per chi vuole il controllo totale.
Infine, il terzo e fondamentale ingrediente: gli ETF armonizzati (UCITS). Perché proprio loro? Perché la normativa fiscale italiana, in modo quasi chirurgico, prevede esplicitamente la possibilità di optare per la tassazione ordinaria sui “proventi derivanti dalla partecipazione ad organismi di investimento collettivo in valori mobiliari di diritto estero” conformi alle direttive UE. Gli ETF armonizzati, domiciliati in Irlanda, Lussemburgo o Francia, sono esattamente questo. Sono la chiave che apre la porta. Azioni singole, obbligazioni singole? No, per loro la strada è un’altra. L’opzione è riservata a questi specifici strumenti.

La grande controversia: solo plusvalenze o anche dividendi? La verità nascosta nei moduli fiscali
Una volta compreso il meccanismo di base, la discussione online si è infiammata su un dettaglio che sembrava dividere persino i commercialisti. L’opzione per la tassazione ordinaria vale solo per i capital gain, cioè le plusvalenze da vendita, o si applica anche ai dividendi distribuiti dagli ETF?
All’inizio, la prudenza regnava sovrana. Molti sostenevano che i dividendi, in quanto “utili”, seguissero una strada diversa, destinati a rimanere intrappolati nell’imposta sostitutiva del 26%. Sembrava logico. Ma la realtà, come spesso accade con il fisco italiano, si è rivelata più sfumata e, in questo caso, più favorevole.
La svolta è arrivata quando gli investitori hanno iniziato a ricevere i report fiscali precompilati dai loro broker esteri (o dai servizi partner a cui si appoggiano). Lì, nero su bianco, è emersa la verità pratica: i report non facevano distinzione. I proventi degli ETF, che fossero frutto della vendita di una quota in guadagno o dello stacco di un dividendo mensile, venivano aggregati in un’unica cifra. Un unico totale da riportare in dichiarazione.
Di conseguenza, quando si barra la fatidica casella per l’opzione della tassazione ordinaria, questa si applica all’intero ammontare. Ho visto con i miei occhi la testimonianza di un investitore che, dopo un anno di esperimenti, ha presentato al proprio commercialista il report con circa 11.000 euro di proventi misti. L’opzione è stata applicata, le detrazioni hanno fatto il loro dovere, e il risparmio fiscale è stato di oltre 2.000 euro. Nessuna obiezione, nessuna contestazione. La pratica ha superato la teoria. Questo ha spazzato via anni di incertezze e ha dato il via libera a strategie ancora più raffinate.

Diario di un portafoglio non convenzionale: dalla rendita alla leva, e ritorno
Il bello di questa strategia è la sua flessibilità. Osservando le scelte di alcuni pionieri, si può tracciare un’evoluzione affascinante, un vero e proprio diario di bordo di un portafoglio non convenzionale.
All’inizio, la scelta più intuitiva era quella di puntare su ETF a distribuzione, come i “dividend aristocrats” o gli immobiliari (REITs). L’obiettivo era chiaro: creare una rendita passiva, un flusso di dividendi costanti su cui applicare la tassazione ordinaria e le relative detrazioni. Funzionava, ma era solo l’inizio.
Poi, è successa una cosa interessante. Un noto broker estero offriva la possibilità di operare a margine con un tasso di interesse incredibilmente basso, intorno all’1,25%. La tentazione è stata forte. Perché limitarsi al proprio capitale quando si poteva prendere in prestito denaro a un costo inferiore al rendimento da dividendi del proprio portafoglio? È iniziata così una fase di leva finanziaria controllata. L’investitore non solo ottimizzava fiscalmente i guadagni, ma li amplificava usando il debito “buono”. Una strategia aggressiva, non per tutti, ma che dimostrava le potenzialità creative di questo approccio.
Tuttavia, le condizioni di mercato non sono eterne. Quando il broker ha alzato il tasso di interesse al 3%, quel castello di carte è crollato. La leva non era più conveniente. Questo evento, però, non ha segnato la fine dell’esperimento, ma la sua evoluzione. L’investitore ha chiuso le posizioni a margine e ha iniziato a guardare con occhi diversi agli ETF ad accumulazione.
La scoperta è stata controintuitiva ma potente: non servono i dividendi per generare un reddito. Si può creare un “dividendo sintetico” vendendo periodicamente una piccola parte delle proprie quote. In questo modo si ha un controllo ancora maggiore: si decide esattamente quanto reddito realizzare e quando, per massimizzare la convenienza fiscale anno per anno. In un anno con poche detrazioni, si realizza poco. In un anno con grandi spese, si realizza di più. È il passaggio definitivo da investitore passivo a gestore attivo della propria fiscalità.

Oltre l’entusiasmo: i rischi e la disciplina del regime dichiarativo
Questo percorso, per quanto affascinante, non è una passeggiata. L’entusiasmo per il risparmio fiscale deve essere temperato da una buona dose di realismo. Chi sceglie la via degli ETF in regime dichiarativo deve essere consapevole dei compromessi.
La complessità burocratica è il primo scoglio. Bisogna essere precisi, organizzati e rispettare le scadenze. Dimenticarsi di compilare il quadro RW per il monitoraggio fiscale può costare caro in termini di sanzioni.
C’è poi il rischio normativo. Le leggi fiscali in Italia sono tutto tranne che stabili. L’introduzione dell’Assegno Unico, che ha sostituito le detrazioni per i figli a carico, ne è un esempio lampante. Da un giorno all’altro, i calcoli di convenienza di molti investitori sono cambiati, costringendoli a rivedere i loro piani. Bisogna essere pronti ad adattarsi.
Infine, c’è il rischio di mercato. La strategia funziona magnificamente quando i mercati salgono e si possono realizzare plusvalenze. Ma in un anno di ribassi? Se il portafoglio è in perdita, non c’è alcun guadagno da tassare, e quindi nessuna imposta da ottimizzare. Le detrazioni, per quell’anno, andranno di nuovo perse. È un meccanismo che prospera con la crescita e va in letargo durante le tempeste.

Un sentiero per pochi, una lezione per tutti: ripensare la fiscalità degli investimenti
La strada degli ETF in regime dichiarativo non è per tutti. Richiede studio, disciplina e un profilo reddituale e fiscale specifico. Non è la soluzione magica che azzera le tasse per chiunque.
Tuttavia, la sua esistenza e la crescente consapevolezza attorno a essa ci insegnano qualcosa di fondamentale. Ci insegnano che il rapporto con il fisco non deve essere necessariamente passivo e subìto. Con gli strumenti giusti e la conoscenza adeguata, è possibile interagire con le norme in modo intelligente, trasformando quelle che sembrano complessità inutili in opportunità concrete.
Forse non aprirai mai un conto su un broker estero. Forse il 26% rimarrà per te una certezza. Ma sapere che esistono alternative, che c’è chi sta sperimentando e condividendo percorsi diversi, allarga la mente. Ci ricorda che, anche nel rigido mondo delle tasse, c’è spazio per la strategia, per la pianificazione e, in definitiva, per riprendere il controllo del nostro destino finanziario. E questa è una lezione che vale molto più di qualunque sconto fiscale.